Dialetto sanmartinese
 
Grammatica del dialetto sanmartinese, proverbi, modi di dire, usi e costumi della civiltà contadina a San Martino in Pensilis
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sabato 28 novembre 2009

Cibo e sberle a volontà

Quando uno lavora, si trova per forza in una solitudine assoluta. Non si può fare scuola, né far parte di una scuola. C'è soltanto il lavoro nero e clandestino. E tuttavia si tratta di una solitudine estremamente popolata. (Gilles Deleuze e Claire Parnet)
Cimentandomi col dialetto non ho potuto non notare la relazione tra le mazzate e il cibo. La mia teoria è questa: siccome la vita contadina di allora, come in tutto il Sud, era fatta di stenti e di miserie, associare l'idea del cibo al castigo non è poi così campato in aria; poteva essere, se non altro, un sentimento di rivalsa che covava dentro... nel tempo. Al padrone si dava una buona parte dei frutti della terra, così duramente sudati; e dare un sacco di botte al padrone era un sentimento represso più che giustificato. E adesso so' fìquere, so' lenticchie, so' peparuole, ecc... E così anche i rapporti inter-familiari erano pervasi dall'idea cibo-castigo.
Mazz' e panelle fann 'i fijje bbelle;
pan' e senza mazze fann 'i fijje pazze.

'A câse ce chiâme porte e chi ne pporte fóre d'a porte.
Un mondo crudele e violento per fame o per necessità che dir si voglia. Bbešcarci' 'u pâne  è un'espressione sintomatica. Il termine bbešcà significa infatti sia prenderle (le botte) che guadagnare (il pane). Il detto "chi magne chemmatte c'a morte" può anche essere parafrasato in "chi magne chemmatte ch'i botte".
So' cîce          So' fâfe         So' fafenevèlle So' fâfe ašcâte
So' lendicchie    So' scarciòfele  So' peparuòle   So' pepedineje
So' rrâpe         So' catalogne    So' jéte        So' melechetugne
So' mmaccarûne    So' checùmmere   So' cetrejuòle  So' pertegalle
So' mandarîne     So' meleganâte   So' uelîve      So' nnûce
So' mmènnele      So' necèlle      So' bbestécche  So' melànguele
So' tercenejèlle  So' cetrûne      So' melûne      So' pére
So' méle          So' melegnâme    So' sciuòcche   So' vruòcchele
So' merîquele     So' uelénece     So' fìquere     So' melengròcche
So' cachisse      So' pemmedôre    So' cecóre      So' verràjene
So' tandalàsene   So' mmejjîche    So' crošche     So' patâte
So' screppèlle    So' caràgnele    So' caveciûne   So' scamórze
So' mmestacciuòle So' savecicce    So' presutte    So' pesille
Sembra che non ci sia alimento, vegetale o a animale, che non sia stato risparmiato. Probabilmente spostandoci a Termoli sarà la stessa cosa e, magari, essendo essa una città marinara, ci sarà una forte predominanza dell'irrinunciabile repertorio ittico.
So' lîce   So' merluzze   So' trijje   So' rrâsce
ecc...     ecc...         ecc...       ecc...
Non scampava, all'associazione con il castigo, nemmeno altre cose come il vestiario ... altro ...
T'ea fa 'nu vestîte
T'ea fa 'nu carôse
T'ea fa 'nu caresétte
T'ea fa 'nu pâre scarpe
T'ea fa 'nu pél' e condrapéle
T'ea fa 'a ggiòbbe
T'ea recapà a scrîme
Anche le bestemmie, più o meno per lo stesso motivo, sovrabbondano. E così dal sangue de  mo' ca ce ne jâve, che sembra voglia a stento trattenere l'imprecazione, si susseguono sangue de... con tutta la sfilza di santi, non esclusi angeli, madonne, Cristo e Padreterno.
L'anti-religione siffatta troverà poi sfogo nell'altra religione ateista: il comunismo. E così un frequentatore di questa novella dottrina escogitò un sistema per evadere la fiscale legge fascista che proibiva di bestemmiare. Ad ogni bottone della giacca, vero o immaginario che fosse, veniva assegnato simbolicamente un santo. Certamente una giacca fatta di tanti bottoni, con la possibilità magari di incentivarne il loro numero. Ad ogni bottone un numero e ad ogni numero un santo, e non ci si poteva sbagliare!... Sangue d'u prime bbettône!....  Sangue d'u terze bbettône!... ecc... Dava i numeri!... Un metodo geniale ed efficacissimo che sostituiva egregiamente la repressa espressione del sangue de mo' ca ce ne jâve!...
Così rimaneva in gratia plena e, soprattutto, non dava appiglio alla sanzione dei birri della buon costume.

     Allo stesso modo avvenne probabilmente anche  per le espressioni figurate riguardanti il dono-omaggio che si doveva al signorotto.

Don *** oppure  Ssegneri, uojje so' fìquere! Dumâne so' scarciòfele, pescrà so' faf' ašcate, e se ssegneri vo'...  i  facce pure 'u vestite!

Uno sfogo si deve pur trovare! Diamine!
   Perciò il dialetto abbonda di terminologia blasfema e violenta, poiché è strategia e, dunque, lotta per la sopravvivenza.  Abbonda altresì di termini riferiti al lavoro, alla fatica e al dolore da essa provocato. È anima-lesco e spesso ci si sente come animali, affaticati, bastonati, ingiuriati. Certamente il dialetto non è una lingua aulica, sebbene  profondamente sentita e poetica.

Carlo Zio mi ha raccontato che ai suoi tempi l'espressione sperejame ca son 'a cambanelle era una triste realtà, di routine; non si volevano figli se non quelli  necessari, specialmente se femmine (la disgrazia in effetti è femmina). E se il bimbo moriva (lutto che quasi si mutava in nuovo battesimo) il padre, oberato dal gravoso lavoro,  molto spesso non aveva nemmeno tempo per andare al funerale del suo tanto in-desiderato figlio o figlia. Il parto gemellare doveva essere considerato una vera maledizione di Dio. Così si sperava che 'a cambanell 'a mmorte suonasse.

SRADICARE LE RADICI

   Diamo un altro esempio di ristrettezza. Realizzare una porta o una finestra, cosa che oggi non comporta grandi problemi, allora era un evento straordinario. Tanto per accennare qualcosa che accadeva in questo passato dialettale. Finita la fame, dissolta la civiltà contadina, arrivato il cancro del progresso, il dialetto, che aveva una sua ragione-regione che lo esprimeva, finisce il suo compito. Le espressioni così colorite e nostrane si disintegrano al contatto con l'educazione ai nuovi valori, economico-lnguistici, che non sono più quelli di una società di sussistenza. Il dialetto muore così, inevitabilmente. Cronaca di una morte annunciata si potrebbe dire. È lo scambio di questi due valori che preoccupa: chi lasci 'a vije viecchi' e va pa' nove, sa che lasse ma ne sa che trove.

   La sostituzione comunque del dialetto con l'italiano ha creato nella generazione dialettale, ovvero  nata col dialetto, una disindividuazione latente irrisolta più o meno cosciente e non troppo  contenta dello sfratto. Si vede così sprofondare, come se mancasse loro la terra sotto i piedi, con tutti i suoi ideali.
   Un po' come è successo con i Sassi di Matera. Ognuno di noi può ricordare il volto [la televisione ancora non occultava bene la genuinità delle emozioni] amareggiato e inconsolabile di quella gente strappata con forza dalle loro case e ingabbiate in strutture di cemento armato. Gli intervistati manifestavano un aperta e concitata disapprovazione. Quale era la motivazione di questo sfratto legalizzato?... Niente popò di meno che l'idiota pretesa inconsulta di dare a quella gente una condizione di vita più civile e più agevole. Civile! Agevole per chi... se quelle persone erano così inconsolabilmente tristi e sconsolate. Non so in politica, cosa abbia realizzato quel gran filibustiere (ovvero gran politico) che era De Gasperi, ma, sarà certamente stato maledetto da tutta quella generazione sradicata. E poi si dice di conservare le proprie radici! Ma tutto sembra che vi cospiri contro a cominciar dalla ragion civile. Le radici, a ben guardare, sono il contrario della civilizzazione e ancor più oggi. Anche se poi si finge di dare una mano spacciando così della propaganda spicciola per la conservazione e tutela dei beni culturali: monumenti, luoghi, dialetti, ecc... Il diavolo alle prese con l'acqua santa.

   Lo sfratto dialettale sebbene molto più grave sembra non produrre, apparentemente, una protesta, una sacrosanta contestazione. È un effetto domin-atore della democrazia che fa credere che esista la libertà di scelta dell'individuo. Poi l'informazione fa il resto. Non bisogna allarmare!... che tradotto in realtà sarebbe: bisogna occultare. Poi quando fa comodo si fa sapere che l'allarme è stato lanciato... ecc. con tanto di camici bianchi ed esperti specifici del settore...

  Dunque lo sfratto in atto sta producendo inesorabilmente una generazione dilaniata, non identificata, che non si riconosce se non nella sua forma burocratica di stato-civile. Del resto alla nuova generazione (e ancor più a quella che verrà dopo) gli verrà sostituito completamente il dialetto con la lingua ufficiale. Non ci si identificherà più in una territorialità (che comunque apparterrà sempre e completamente al processo economico) e il tempo verrà gestito, non dai cicli delle stagioni e dal corso del sole, ma da quelli informativi e dalla propaganda.

   Ciò che mancherà ai giovani oltre tutto sarà la base linguistica che produrrà spaesamento. Cittadini del mondo equivarrebbe a dire: sfrattati per sempre dal mondo.

mercoledì 25 novembre 2009

Tra storia e mito



La cosa più importante per un genio consiste nel rendersi inutile, nel lasciarsi assorbire dalla corrente comune, nel divenire nuovamente un pesce e non uno scherzo di natura. Il solo vantaggio, mi dissi, che lo scrivere avrebbe potuto offrirmi, sarebbe consistito nell'eliminare le differenze che mi separavano dal mio simile. (H. Miller)



Cosa bestiale la Storia!... Si scrivono dei fatti (veri, verosimili o presunti) estromettendo tutto il resto, ovvero: l'essenziale. La Storia non fa storia; e così ci tocca far riferimento all'immaginario. La storia dovrebbe essere quella riguardante ciò che è stato estromesso, dimenticato, mai reso pubblico. In questo caso la storia diventerebbe un paradosso. La storia la fanno i vincitori ovvero: i perdenti di domani.

Ciò che ci rimane di essenziale nella storia può essere benissimo la lingua, il linguaggio, gli usi e costumi di un luogo, che non hanno seguito le direttive dei vincitori-perdenti ascritti ad essa. Una storia minore ma più vera; orale e non scritta, quindi: più attendibile. È più facile falsificare uno scritto che una voce, una tradizione, del folclore nostrano ecc.... E quando parlo di falsificabilità non mi riferisco soltanto ad interessi di parte ma proprio al fatto che è falso l'intento: quello di voler storicizzare gli eventi. Se ne sceglie uno e se ne dimenticano mille.

'A Carrése

Carrése - s.m. - [in calabrese: carrisi] - Deriva da carro come altri dialettismi quali l'abruzzese carrésê (agg. di strada, carreggiabile) e il lucano carrêsà v. trasportare.

Le Carresi o Laudate sono canti popolari intonati durante alcuni rituali che celebrano delle manifestazioni folcloriche di alcuni paesi molisani.

A San Martino in Pensilis, la carrese e la conseguente corsa dei carri sono in onore di San Leo, per celebrare l'anniversario dell'evento, nel tempo immemorabile, della traslazione delle reliquie del corpo di San Leo, dal presunto posto nel quale fu rinvenuto fino alla chiesa madre di allora (Santa Maria) che invece oggi è San Pietro Apostolo.
La carrese è un canto monodico ove i distici vengono eseguiti alternativamente da uno dei due cantori.
Me vuoglie fa la Croce, Patr’e Figlie,
perciò che la mia ménte nen ze sbaglie.

A premmavére ce rennov’u mònne,
de sciure ce revèste la cambagne;

l’àrbere ce recrop’ a stéssa fronne,
l’avecièlle tra lor gran fèsta fanne!

Cchiès’adorat’ e scala triumbante
d’avolie sonne fatte li tò mure;

'n guésta Cchièse ce stà ‘nu Corpe Sante
e pe nnome ce chiame Sante Lione!

Anne, Madonna mi’ de lu Saccione,
e Sande Léie de Sande Martine,

e Sant’Adame ch’è lu cumpagnone
e sande Vàsel’ accant’ a la Marine!

Me vuoglie fa’ ‘na vèsta pellegrine
e vuoglie ì addo’ sponte lu sole;

a llà ce staie ‘na conca marine
addò ce battezzaie nostro Segnore,

e la Madonne lu tenéve nzine
e San Geuanne che lu battezzave!

E nu’ laudam’ a tté, Matra Marije
tu sol’ a pù pertà ‘a palm’ a mmane;

e nuje Lu pregame tutte quante
ddì ce ne scambe da tembèst e llampe;

e nuje Lu pregame ndenucchiune
scàmbece da tembèste e terramute;

e nuje Lu pregame e nzéme dégne
purta’ la palm e la ndurata nzégne!

A ndò ce v’ a scarcà lui vérde làure?
A Ssante Piètre le Cchièse de Rome!

Nu’ veléme laudà quistu gran Sante
fa menì ‘n zalvamènt’ a tutte quante!

Tòcca, carrier’ e ttòcche’ssu temone
tocca lu carre de Sande Lione!


Ascolta la versione recitata

San Leo
patrono di San martino in Pensilis e la corsa dei carri.

...Quande une ada parlà de Sande Lé, ada parlà sammartenese, se nò è mejje che ce sta zitte. (Luigi Marcangione)

San Leo, sacerdote e monaco benedettino entrò nel convento di San Felice, posto non lontano dalle terre di Cliternia, viveva santamente, predicando e guarendo molti malati. I suoi miracoli gli procurarono tale fama da essere proclamato Santo dal popolo e dal vescovo di Larino. Morì un 2 Maggio attorno all'anno mille e fu sepolto nello stesso convento di San Felice. Questo fu abbandonato per le continue invasioni barbariche e per i frequenti terremoti. Il corpo del Santo stette più di un secolo sepolto sotto l'altare e un giorno...

VEDI anche San Leo secondo le Memorie del Tria



S. leo, Chiesa S. Pietro Apostolo - P. Aulicino (Olio su tela), 1768


'A leggende de Sande Lé

Tanda tembe fa, forze so' mill'anne,
ce stâv 'u Conde Granne d'u Retejèlle.
'Nu juorne jènn' a cacce ca ci' affanne
a mènd 'i vé 'na cóse ch'i pâre belle.

« 'Na schemmésse vuòjje fa e 'a facce!
- decéve penzanne già 'u fatte fatte
e c'u penzejère vedènneli - già 'u sacce
chi ada venge e chi ada perd 'u patte ».

Ce mette pu' d'accorde ch'i barûne;
ce stàvene de Sammartin' e de Uerûre,
de Chièvet' e da Serra, ad ûn' ad ûne,
da 'i mejèjje pajisce vènne 'sti segnûre.

A schemmesse jeve a cchi accedéve
cchiù anemâle dend' a 'nna jernâte.
E 'u juorne c'àvene ditte già venéve,
'nu vòsche ce so' ttutte retrevâte.

'Ttaccàt' ònne ch'i zôche tutt 'i cavalle
'mbacci' a 'na 'ndîca cèrquela grande
e chemenzen' a jî cacce capabballe
e capammonde pejjanne caprejuole tande,

lejèpre, cenghiâle, vùlepe e faggiâne;
'nnanzepètte quelle ca ce stâve
ce reégnen' 'i canistr' e tutt 'a chiâne,
eppù 'ngôre fin 'u sôle che calâve.

Strutt' e stracche, 'a sere sta 'rrevanne,
e péd' a 'nnanze péde pu' revènne
'ndo 'ttaccate lor 'i cavall' anne,
l'ôre de reji a 'u pajésce già vedènne.

Ma mèndre ca revènne, da lundâne...
'nu frastuòne de cavall' a llà ce sènde:
jemènde 'mbavezîte, remûre strâne...
'n'agetaziôn' è 'u conde, n'è quendende!

E svelte cammenanne ch'i barûne,
sèmbe cchiù svélte jenne, ce so messe,
'u conde 'nnanz' a llóre, a ûne a ûne,
e nne' penzanne cchiù a 'llà schemmésse.

E s'i ròcchie ne jèven' aqquescì fûte,
già a 'lla fusse 'rrevate senza danne.
« Sta a vvedé ca cacchedûn' a 'vûte
'u queragge de 'rrebbà, 'nu bregande?... »

- 'U conde 'nzalvaggite già penzâve -
e querrènne, va de corze, tutt'armâte
'rrevanne 'ndo 'u cavalle soje ca stâve,
tutte quâsce restanne senza sciâte;

pe' n'atu 'ccône llà pe' llà 'ngiambanne
vedènne 'lli cavalle 'ndenecchiâte...
tutte sbauttît 'i barûne cchiù ne sanne
che cose fa, sò quâsce proccupâte.

Sùbbet' a mmènde lore già penzanne
a 'nu meràquele, lor'onne 'mmaggenâte,
ca sott'a tèrre forze, senza 'nganne,
caccóse nascòste 'llà ce fusse stâte.

Quescì è. E chemenzen' a scavà,
ch'i mâne, ch'i quertejèlle, chi ch'i spâte,
ch'ogni cóse serv 'a terre pe' levà
e doppe 'nu belle 'ccône tutte sedâte,

fràcede, mejèzze stuòrt' e mejèzze strutte,
vèdene 'na sola làpede deritte.
Lèvene tutt 'a terra 'ngoppe tutte,
pe vedé che cose sópe stâve scritte.

'U conde 'sti paróle legg' e dîce:
« A ecche repóse 'nu corpe Sande
e Lejône ce chiamav'a San Felîce »
'che cchiù llà stâve 'neccône distande.

Pe vedé tutte anzejûse che ce stâve
sott' a 'lla morge sott' a 'llu chepejèrchie ,
messe ce so' sùbbete 'a semóvela
'lla préte granne assa' e tande vejecchie.

Maravejjâte, 'i lor' uocchie nnu' crèdene
e 'u ségne da croce ggià ce fanne
pecché tutte 'u meràquele 'lla vèdene
'na pìqquela cascetèlle senza panne,

e 'ttuorn' ad éss 'a luc'è 'scî 'ccecande,
fa chiude l'uochi' a tutt'... e ce 'ndravede
dende l'urne ca stàvene l'Ossa Sande.
Vicin' e cchiù 'lla 'ngôre - da ne créde -

'nu cestarejèlle, cacche âghe, è chiâre,
'nu jòmmere de spâghe e 'nu detâle
vicîn' a cascetèlle, 'u fatte pâre...
ca chilli sonn 'i cose soje, sacrâle,

a 'ndo avesse passat 'a vîte 'u Sande,
renghiûse dènd' a 'llu vejecchie chemmènde,
jettâte 'ndèrre p'u terramûte grande;
'u tenn 'i barûne pruopej' a mènde.

'Ndenecchiâte stàvene ch'i cavalle.
Rengraziâte onne dopp 'u Segnôre,
pe' quelle grazeje de vedé 'lla balle
'u corpe de Sande Lé Chembessôre.

E già 'nu parapijje sta 'llà pe' nnasce
ca ognûne vò pe' isse 'u corpe Sande
pe 'nór' e glòreje da 'a pruòpeje pajésce
e tutt 'u sanne: ce n'ada èsse tande.

E letecanne stàvene fejèrre fejèrre
bastûn' e spâte chiappànne, quertejèlle,
e, prîme ca cacche ûne casca 'nderre,
ce facesse mâl' o fusse mòrt' a duèlle,

'u brâve Gran Conde allôre d'u Retejèlle,
mannann 'u sèrve soje a ff 'a mmasciâte
da 'u Véscheve da 'Rina e 'pu da quelle
cercà d'avé 'nu quesijje, fa a penzâte.

'U véscheve parle allôre chiâr' e tónne :
"Ttacât 'i quatte vuòve 'nnanz 'u carre
lasciâte jî l'anemâl' a 'ndo jî vonne
mettènne prîme l'urne 'ngoppe 'u carre.

Sande Lé 'i porte secûre 'ndo vo isse
e pruopi' a 'llà soltande sarà 'nerâte.
D'accorde sònne; quescì ad'èsse fatte.
E sfil 'u carre 'lla pe' 'lli quendrâte.

Senza fermarce neccône - e come jâve! -
'nemmene 'nu seconde pe' llì strade.
Tutte 'llùcchene - nesciûne 'mmagenâve! -
chiagnéve caccheûne ca 'u vedéve.

Fra llucch' e strejèpete, tra 'i mundagne
'i vuove jàvene attuorn' attuorne,
p'i cuoll' e p'i chiân' e p'i cambagne,
querrènne fîn'a che ne' ccâl 'u juorne.

'I vuove pàssene terâte pu' Retejèlle,
'u stesse fanne passanne pe' Uerûre,
a Chièvete manghe vann' a trettarèlle,
e Cammarîne ce sende 'scì secûre,

facènne fest' e 'i botte ggià sparanne,
quendènde pecché sanne ca 'llu Sande
vo jî pruòpeje 'ndo lore bèlle stanne.
Ma 'u carre che tutt 'i vuove pass'annande.

Tutte de corze, senza fermarce va
'u carre 'ch'i vuov 'u sande velanne.
'Jeve 'nu juorne d'Abbrîle - ma chi 'u sà! -
'i trènde - 'ndo vo jî? - già sta rrevanne.

A ggende 'a Sammartîne p'i cambagne
ce vede passà sparât 'u carr'a nnanze
e pâre pruòpeje ca vo jî allà - ne cagne! -
'nu pajésce lore, è cchiù de 'na speranze.

Tutte de corze vann' a mezz'a chiazze,
e sùbbete ce fa 'na folle grande.
Tutte vonne sapé, sémbrene pazze,
« 'nu pajese nostre vo menì 'u Sande!

Madonna Sande puorte 'n zalvamende!
Vîve, vîve Sande Lé de Sammartîne! »
'Lleqquanne, chi chiagnenne, chi preganne
chi zitte ce fa sol 'u segne da croce.

'U carre chemenze semb' a ji cchiù lènde
... sembe chiù llènde llènde pa' Marîne
... a passe passe 'u ponde rènde rende
fermànnece a Sanda Marije bbecîne.

'Llà, c'a ggende stâve 'scì 'lleqquanne,
de colpe: tutte rèstene sbauttîte...
p'i vuove ca šcattanne 'nderre vanne...
Sembre c'u Sand' è pruòpeje sparîte.

« Ndò è jûte... - dîce 'a ggente - 'u Sande?...
- De frett' e fùreje dend'à cchiese trascènne,
pregann' a 'u Segnore: - Redacce l'urne! »
Ma esse 'llà 'ngoppe stave già lecènne.

'Ngoppa ll'altare l'Urne stava Sande
e llustre e llûce dâve a tutte quande,
jettave scendille tande tande tande
mille cannéle sembrave quistu Sande.

Nesciûne ch'i teqquasse, tutt 'i cambâne
senann' a destése, a feste ce so messe,
Sciûr' e chembejette - sembrâve 'na fendâne! -
Da quillu juorn' ogn' ann' è sèmb 'u stesse.

sabato 21 novembre 2009

San Geseppe

Ce 'llonghene 'i jernate;
Premmavere già vé,
che tanda sciure nate
che so bell' a vedé,
a dda' 'llegrezze e ggioje
a tutte quand 'i ggende,
c'u verde e lustre soje,
pur' a chi ne tté nejende.

San Geseppe ce sende
nell'areje; té 'u penzejere
de farce sta quendende.
Pare 'nu sciardenejere
che va 'ccojje nell'orte
fafe e cice e pu' tande
de chilli cose porte;
e llà 'u sejende ca cande.

Fra poche è Premmavere
e ce rennov 'u monne
l'arej' è orma' fresche e vere
ca tutte fore vonne
jî a 'ccojje jerve e sciure
pe' revestì a vetare,
candanne: «Ddî ce cure
da 'i male e ce té care».

Mettét 'i 'ngoppe, 'i sciure,
'ndo' 'lli cannele stanne,
che luce dann' a 'u mure
e 'u Sande 'llemenanne.
Pertate p'u d'i gijje
d'i rose e tutti 'i cose
che servene p'u fijje
p'a madonn' e p'u spose.

E pu' rendeme grazeje
a tutt 'a sacra famijje;
pregame ca pu' strazeje
da nu ne trove appijje.
E Sette sonn 'i stelle
che 'ngiele sopa stanne
ca brillene chiù belle
'a vite rennevanne.

E sette so' 'i peccate
ca 'u dejavele ce tende
e nu t'ame pregate
a ch' isse n' ge fa' nejende.
'Ndande pare ce sende
'u suone d'i cambane...
C'u bammenelle a mmende,
San Geseppe... E lundane

sendeme chiare 'i vuce,
come se fusse jere,
vedeme chilli cruce,
'i femmene, de nere
vestute, e te requorde
quande javame uajjune,
e orma' cchiù 'n d'u squorde,
pe' porte jenne e pertune.

L'areje sémbre cchiù serene,
è sciute pure 'u tembe,
e quiste è tutt 'u bene:
«Gessummari!». - «Gessembe!»

Italiano come arma di distruzione di massa


La differenza tra il rapporto che noi abbiamo col dialetto e quello che costruiamo con l'italiano è, rispettivamente, come il legame che sussiste con i propri familiari e il legame che si istituisce con un estraneo oppure una persona che si conosce da un certo tempo. Il legame familiare può essere viscerale, conflittuale, impossibile; un rapporto estraneo può essere buono, intrigante, corretto, ecc.
Scrivere in dialetto è come ricostruire un mosaico di cui si possiedono tutte le tessere; ma esse sono sparpagliate dappertutto, qua e là, nei luoghi della mente, ma, nonostante tutto, facili da trovare perché sono parte di noi, come noi.

È un'idea che da diversi anni mi frullava in mente: quella di scrivere una grammatica del dialetto sanmartinese. Il nostro dialetto, un po' come tutti gli altri (in special modo quelli minori), si sta perdendo. Si è già perso. È un male? È un bene? Sensazione nostalgica forse?... Le nuove generazioni s'illudono - beata gioventù! - in buona mala-fede, di parlare meglio in italiano, con un inflessione falsata e un intercalare privo di un anima(lità), cosa che invece possiede un qualsiasi dialetto. Esso nasce(va) come la vegetazione spontanea, è come le pietre e le piante del luogo; ha un passato, una storia, una legenda... un mito... e... mi ritrovo così ad affrontare la problematica che già Pier Paolo Pasolini cercava di risolvere, se non altro poneva sul tavolo una spinosa questione, una critica sacrosanta; l'abbandono dei dialetti a favore di una lingua, letteraria (d'elite se vogliamo) quale è appunto l'italiano; nato come un evento letterario. Letterario e non popolare.
Se è giusto imparare l'italiano, possibilmente al meglio, altrettanto giusto mi sembrerebbe riconoscere questa vasta pluralità dialettale insulare-peninsulare. Si parla di crisi di valori ma la perdita di un dialetto non è forse la perdita del valore più importante?... Perdendo il dialetto vengono a mancare anche tanti altri valori ad esso connessi. È un processo di disintegrazione storica già in atto da tempo, da sempre. Fino a trenta anni fa ancora aveva un senso parlarlo. Imprevidente per il futuro che lo avrebbe dismesso. Quel piccolo mondo antico che raccontava, si raccontava, si è disintegrato. Il dialetto non ha quasi più un senso, sembrerebbe... Fra non molto sarà una ri-scoperta archeo-filologica-linguistica che farà assegnamento (ormai svanita la persona che lo parlava) soltanto a qualche reperto-documento lasciato in eredità ai posteri: le poesie di Sassi, il vocabolarietto di Zurro, ....
Il dialetto ci ha forgiati un esistenza alla quale si è inesplicabilmente legato. Ci ha accompagnati negli anni, nel bene e nel male, e fa parte di noi stessi che inevitabilmente ci confrontiamo, perdenti, con la selvaggia globalizzazione.
Delle tradizioni, l'ho sempre detto, si prende il lato peggiore e si butta via quello migliore. Prossimamente, in un futuro mica tanto lontano, ci saranno le esequie dei dialetti minori, poi toccheranno a quelli maggiori: napoletano, siciliano, sardo, romano, veneziano, genovese, milanese, friulano, ecc...
È un processo globale, poiché l'unica cosa che conta sono ora le leggi economiche. E secondo questa filosofia ugualitaria-massificante vengono implicitamente poste delle domande essenziali: a cosa serve il dialetto?... a cosa serve l'arte?... a cosa servono le tradizioni?... a cosa serve la religione?... a cosa serve Dio?... ecc... Le risposte ovvie che ne derivano possono essere riassunte nella massima di Andy Warhol che sentenzia: "un buon affare è il massimo di tutte le arti". Se c'è bisogno che Dio esista, ci deve essere una convenienza, ci deve essere un buon affare, altrimenti... perché farlo esistere.
Il dialetto (per quelli della mia generazione in giù) ci appartiene o, cosa molto più veritiera: apparteniamo al dialetto. Fa parte della nostra fisiologia, del nostro immaginario, nel bene e nel male, così come ci è difficile rinunciare al proprio modo di pensare, al proprio modo d'essere e di avvertire lo spazio circostante, pena l'artificiosità, l'affettazione.

Perché dunque il dialetto?... Perché ci ha accompagnato, formattato, per così dire, fin dalla nostra nascita e forse ancora prima nella nostra vita prenatale. Quindi esso rappresenta il sostrato più profondo di noi, la base del nostro linguaggio più vero, il nostro immediato [non-mediato] rapporto con il mondo. Non è nostalgia (un ricordar passato, malinconico, uno scavare-scavarsi che va cercando un mondo perduto) ma un senso di giustizia, di verità, di obiettività, il senso d'essere noi stessi, di lealtà innanzi tutto. Finché viviamo [almeno per noi della ultima generazione dialettale], volenti o nolenti, il dialetto sarà la base di ogni nostra iniziativa, proposito... Il linguaggio dialettale ci ha forgiati, istruiti, richiamati, ammoniti, gratificati, ecc... Dal primo vagito, alla prima parola "mamma!...", alle prime parole familiari e dense di significato che ci hanno caratterizzato indelebilmente... la nostra vita futura.
Si nota talvolta persone italianizzate al massimo grado, in momenti cruciali, di difficoltà, imprecano in dialetto... Chissà mai perché! E non è cosa da poco!...
Carmelo Bene parla dell'italiano come di una lingua che non esiste se non nella sua frantumazione insulare e peninsulare, un vasto crogiuolo di dialetti quindi che va da quelli settentrionali (ligure, piemontese, milanese, veneto, veneziano, friulano, ladino, ...) al toscano, ai dialetti centro-meridionali (romanesco, marchigiano, napoletano, calabro-salentino-siciliano, sardo, ...). Possiamo paragonare questa smisurata ricchezza dialettale italiana alla bio-diversità e l'italiano come agli OGM, all'omologazione.
Può darsi che l'italiano sarà parlato. dalle future generazioni in tutta Italia abbastanza spontaneamente, quasi fosse un dialetto. Ho dei forti dubbi, sulla spontaneità... A noi invece tocca l'impresa di navigare questo passato vissuto perché è presente. Il dialetto è anche la nostra tana.
La nuova generazione paesana [senza nessuna smania di atteggiarmi al fatidico sentimento di chi declama "ai miei tempi"] non ha una base linguistica nostrana. L'inflessione dialettale resta, anche se non sempre nella dizione.
Il dialetto nasceva, si costituiva ed evolveva nell'ambito della civiltà contadina e ogni parola, ogni gesto, ogni inflessione rispecchiava appieno lo spirito del luogo. Se si ascoltano le intonazioni delle frasi ci si accorge di come sia difficile tradurle se non artificiosamente per mezzo di un'altra qualsiasi lingua (scritta o orale che sia) come ad esempio può essere quella italiana. Ciò che viene tradotto è quindi la frase astratta e avulsa dal contesto della tradizione, dalla sua storia, dal suo paralinguismo. Anche scrivere in dialetto è una sottrazione a quella realtà immediata, spontaneamente intonata, significativa, che è ,e soprattutto era, la lingua parlata. Dico lingua e non dialetto definizione alquanto riduttiva. Cosa manca dunque all'italiano bastardo della nuova generazione?... Un anima, un animalità, la spontaneità, l'immediatezza. Una volta il linguaggio dialettale si sviluppava e si svolgeva nell'ambito di una realtà effettiva, fatta di lavoro, di impegni, di sacrifici ecc. ed era un identità. Nel linguaggio ci si identificava; ed esso ci identificava, dava nome alle cose, riconoscendo-ci il mondo circostante che lo esprimeva pienamente. L'esempio era dato e legato a quella realtà che condizionava e si faceva condizionare dal suo linguaggio. Adesso l'esempio lo danno i mass-midia, un linguaggio informativo, tecnologizzato, astratto, ormai avulso dal contesto paesano-dialettale. Quiz, telenovelas, telegiornali, tele-invasioni... Se si parla allora di globalizzazione, bisogna considerare seriamente, tra la perdita dei valori, il valore del dialetto e del suo linguaggio che è il più importante. Il luogo effettivo, reale, viene a sostituirsi con quello immaginario mass-mediatico. Sparendo la civiltà contadina sparisce anche il suo linguaggio, la sua anima.